La guerra in Ucraina: tra informazione e voyeurismo dei social media

La guerra in Ucraina: tra informazione e voyeurismo dei social media

Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina i nostri social sono stati inondati da video che mostra quasi in diretta cosa sta accadendo nel paese attaccato dalla Russia. Mai una guerra aveva prodotto un così grande quantitativo di video, mai prima d’ora i nostri dispositivi erano stati raggiunti in tempo reale dalle atrocità della guerra. Cosa ci racconta questa nuova modalità di comunicazione?

Le informazioni si susseguono in modo incessante, così come video di carrarmati che schiacciano civili, bombardano palazzi, uomini feriti, persone stipate e terrorizzate. All’inizio ci siamo trovati a guardarli con curiosità per capire cosa stava accadendo, per comprendere la realtà dei fatti. Un video del resto è qualcosa di reale, immediato, veloce.

Questa è la guerra dei social network: un conflitto che vede la una velocità di informazioni e l’interconnessione quale protagonista, alla ricerca del video più rapido e ad alto impatto emotivo. Tutti possiamo vedere tutto. Eppure dopo un’iniziale e naturale curiosità nei confronti del conflitto russo ucraino, iniziamo progressivamente a sospettare che quei frame in realtà non ci raccontano nulla che vada altre alle atrocità e la brutalità di una guerra di cui i civili sono i primi a farne le spese. Ma queste brutalità in realtà sono proprie di qualsiasi guerra.

La guerra è atroce e brutale; forse servono dei video a ricordarcelo? Forse sì o forse no.

Cosa ci dicono questi video della narrazione mediatica che ruota intorno alla guerra in Ucraina?

Sicuramente il racconto della guerra è cambiato. Ci arrivano dati, immagini, frame che non vengono filtrati, alcuni addirittura si scoprono non appartenere nemmeno al conflitto in corso, ma tanto è lo stesso perchè in fondo ogni guerra è uguale. Forse questo desiderio quasi voyeuristico è alimentato dall’assenza decennale di conflitti armati nella vecchia Europa.

Ci siamo dimenticati com’è una guerra e quali sono i suoi effetti? Eppure ad agosto avevamo visto in Afganistan cosa accadeva; forse il primo caso di comunicazione 2.0 della guerra.

Dopo aver realizzato che tutte le guerre sono uguali e che anche questa in Ucraina non fa differenza con le sue atrocità, massacri e corpi martoriati, chiudiamo il video e passiamo al prossimo contenuto proposto dal nostro feed.

Ma qual è il fine di questo bombardamento mediatico, di questa bulimia di contenuti non filtrati, privi di alcuna narrazione? Informare, potremmo rispondere in un primo momento. Ma il non vedere questi video, renderebbe forse la guerra meno reale ai nostri occhi?

Un tempo la guerra veniva raccontata da un* giornalista che mostrava le immagini raccolte da altri colleghi; un tempo i conflitti erano documentati e filtrati da occhi esperti. Potevamo vedere le conseguenze e gli effetti che i conflitti producevano, vi era un commento dietro, analisi e informazioni che inserivano quel che si vedeva all’interno di un quadro narrativo più ampio.

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Questi video che ci arrivano sono come dati grezzi messi alla mercè di chiunque senza tenere in considerazione la sensibilità del pubblico che lo riceve passivamente, senza considerare la possibilità di scelta di ciascuno di noi. Possiamo scegliere di non voler vedere scene atroci senza sentirci in colpa per questo. Come d’altra parte esistono persone che desiderano vedere queste brutalità alimentati proprio da quel voyeurismo di cui sopra.

Per chi ama questi contenuti “splatter” il web è pieno. La differenza è la possibilità di scelta dell’utente che cerca attivamente quella tipologia di contenuto.

Come mai la stessa copertura mediatica non è riservata ai video che analizzano la situazione e che inseriscono questi frame in una narrazione della guerra? In quel caso potremmo parlare di vera comunicazione e distinguerla dagli “agiti”, prendendo in prestito un termine psicoanalitico, ovvero quelle azioni aggressive e impulsive non mediate dal linguaggio e dalla riflessione.

Purtroppo in una realtà così veloce e fugace chi “comunica” sa che ha poco tempo per trasmettere l’informazione e la rapidità di un reel assolve a questa esigenza moderna. Ma questo ha un prezzo: l’utente non acquisisce nessuna informazione, non matura alcuna riflessione, ma si trova un contenuto ad alto impatto emotivo che lo tocca e non è detto che abbia gli strumenti per poterlo elaborare e poter gestire quelle emozioni primordiali da essa scatenata.

Nulla cambia dopo aver visto quelle immagini.

I più giovani continueranno a sparare dietro i loro joystick comodamente seduti da casa e protetti dalla finzione della loro console. Gli amanti del genere gore continueranno a consumare e cercare scene cruente e violente. Gli adulti avranno di che parlare durante le pause per intrattenere fugaci conversazioni senza impegno con il vicino: “hai visto cosa sta accadendo?”

Cinismo? Forse. Di sicuro questa nuova forma di comunicazione che è propria di questo nuovo secolo e dei social network che ne fanno da padroni non stimolerà l’empatia in chi non ne ha, nè potrà implementare quelle competenze metacognitive di interrogarsi su quanto visto, mettersi nei passi di, ecc.

I più sensibili non devono sentirsi in colpa se non riescono a vedere queste immagini. E’ legittimo non voler vedere e passare avanti. Il non voler vedere non coincide con il non voler sapere. Anzi, la consapevolezza di quel che accade matura seguendo le analisi e gli approfondimenti degli specialisti, in cui vengono anche inserite immagini della guerra in corso, ma che appunto si trovano all’interno di una cornice narrativa che da senso a quanto viene visto.

Come è cambiata la comunicazione?

Un tempo i fotogiornalisti curavano le immagini che ritraevano persone impegnate in prima linea o indirettamente coinvolte nel conflitto in modo accurato e attento per la stampa. Oggi le norme estetiche dei social si impongono su quella che è stata chiamata in un podcast di approfondimento sul tema “The Most Online War of All Time Until the Next One.” Da altri invece è stata chiamata la “guerra di Tik Tok”.

A differenza del fotogiornalismo, commenta Susan Sontag autrice del libro “Regarding the Pain of Othersla documentazione sui social media ha meno probabilità di durare, è effimera per definizione, ma per il consumatore può creare un’esperienza più immediata e coinvolgente di una situazione che si sta svolgendo nel momento.

Il flusso di video dei social evoca in noi solo una confusa consapevolezza, un sentimento di sympathy (compassione), e non di empatia, che dura solo il tempo necessario prima di passare al prossimo contenuto.

I social media sono un cronista imperfetto della Guerra in Ucraina. Tuttavia in quei casi in cui i giornalisti vengono allontanati e tagliati fuori, potrebbero invece diventare la fonte più vicina a quello che realmente sta accadendo.

Alessandra Notaro

 

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